Ago 15, 2022 | Notizie | 0 commenti

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LA VITTIMAZIONE SECONDARIA DELLE VITTIME DI VIOLENZA – MARIO PAVONE

 

Violenza

La Commissione d’inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza ha presentato i dati della sua ultima indagine, con la “Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”.

Il primo tema trattato dalla Commissione,che costituisce anche il tema principale, è quello della disciplina normativa nazionale e internazionale riguardante la vittimizzazione secondaria e i suoi indicatori; quindi sono esposte le risultanze dell’indagine campionaria compiuta presso i tribunali civili ordinari e presso i tribunali per i minorenni; vengono infine esaminati nel dettaglio le criticità emerse dall’esame dei casi specifici.

Alla luce della complessa attività di indagine svolta, supportata dal dato statistico, vengono quindi formulate specifiche raccomandazioni della Commissione sulle più evidenti criticità emerse dall’insieme dell’indagine.

Alla presentazione del documento è intervenuta anche la Ministra Cartabia, che ha definito la violenza di genere “una sconfitta della nostra civiltà”., affermando come il punto di partenza sia “Il diritto fondamentale della vittima di violenza a non essere violata una seconda volta nella sua dignità” principio stabilito dalla Corte di Strasburgo proprio in pronunce che riguardano direttamente il nostro Paese, ovvero l’ulteriore vittimizzazione della vittima di violenza da parte delle istituzioni o degli individui che dovrebbero essere chiamati a proteggerla.

L’inchiesta è nata anche su sollecitazione di numerose madri vittime di violenza e dalla consapevolezza che solo una risposta coerente di tutte le istituzioni può arginare la diffusione della violenza domestica e di quella di genere. Non è infatti ammissibile reprimere la violenza a livello penale e poi ignorarne gli effetti nei procedimenti che regolano l’affidamento dei figli o la responsabilità genitoriale, tollerando che l’autore di tali condotte, da una parte sia indagato e condannato per quanto commesso, e dall’altra sia considerato un genitore idoneo, al pari di quello che ha subito violenza.

All’esito dell’inchiesta è emersa l’esigenza di un radicale mutamento all’approccio culturale sul tema, individuando strumenti che consentano di riconoscere la violenza domestica in maniera tempestiva e precoce, con invito a tutti gli operatori coinvolti a “riappropriarsi dei fatti”.

A tal fine, la relazione ha evidenziato una serie di linee guida e buone prassi volte ad incrementare la formazione specifica degli operatori sul tema della violenza domestica, tra cui:

  • la specializzazione obbligatoria dei soggetti istituzionali coinvolti (forze dell’ordine, magistrati, avvocati, consulenti, operatori dei servizi sociali), con corsi di formazione sugli indici di riconoscimento della violenza domestica e sulla normativa nazionale e sovranazionale in materia;
  • la formazione di liste di operatori e professionisti specializzati, in ogni settore, sul tema della violenza domestica, cui attingere in presenza di allegazioni di violenza;
  • l’attuazione di percorsi di formazione condivisa tra magistratura (inquirente e giudicante; ordinaria e minorile), forze dell’ordine, avvocatura, servizi sociali, servizi sanitari, centri e associazioni anti-violenza, per diffondere conoscenze atte ad individuare gli indici di violenza domestica.

Ulteriori prospettive di riforma riguardano direttamente l’impianto normativo, in particolare le disposizioni che disciplinano i procedimenti di affidamento dei minori e quelli aventi ad oggetto la titolarità della responsabilità genitoriale, al fine di dare effettiva applicazione all’art. 31 della Convenzione di Istanbul e rendere imprescindibile l’ascolto diretto del minore in sede di istruttoria nei giudizi per l’affidamento.

La Commissione aveva il compito di monitorare a concreta attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011[…]e di accertare le possibili incongruità e carenze della normativa vigente rispetto al fine di tutelare la vittima della violenza e gli eventuali minori coinvolti» (articolo 2, comma 1, lettere b) c)).

La Convenzione di Istanbul, all’articolo 18, stabilisce,infatti,che gli Stati firmatari si impegnano ad “evitare la vittimizzazione secondaria”, che consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale.

La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa.

La necessità di accertare le dimensioni e l’ampiezza del fenomeno della vittimizzazione secondaria è derivata, inoltre, dalla consapevolezza che solo una risposta coerente di tutte le istituzioni può arginare la diffusione dell’endemico fenomeno della violenza domestica e di genere.

Non si può reprimere la violenza domestica nella normativa sanzionatoria penale e nei procedimenti penali, ed ignorarne gli effetti nei procedimenti che abbiano ad oggetto la disciplina dell’affidamento dei figli o della responsabilità genitoriale.

Un corretto Ordinamento non può tollerare che da una parte l’autore di violenze venga indagato e condannato per le condotte commesse e dall’altra venga considerato un genitore adeguato al pari di quello che le violenze abbia subito, senza che gli agiti violenti, nei procedimenti civili e minorili vengano accertati e abbiano dirette conseguenze sulla gestione della genitorialità. E’ necessario garantire l’adozione di provvedimenti coordinati, nella consapevolezza che la vera efficacia deterrente per reprimere condotte di violenza domestica si realizza verificando la sussistenza di tali condotte, anche e soprattutto, nell’ambito dei procedimenti civili e minorili che hanno per oggetto domande relative ai figli minori, con immediati riflessi, in caso di accertamento della sussistenza delle stesse, anche nelle forme di violenza assistita, sulla disciplina della responsabilità genitoriale e dell’affidamento con adozione di misure limitative a carico del genitore violento.

L’indagine ha avuto come oggetto lo studio di 1411 procedimenti giudiziari, iscritti a ruolo nell’anno 2017, relativi sia a giudizi civili di separazione giudiziale con domande di affidamento di figli minori sia a giudizi minorili sulla responsabilità genitoriale. Negli anni 2020-2021, sono stati esaminati per i 1411 procedimenti tutti gli atti processuali: atti di parte, verbali di causa, relazioni dei servizi socio assistenziali, consulenze tecniche d’ufficio, provvedimenti provvisori e definitivi adottati dai giudici, ogni allegato dei fascicoli di parte e d’ufficio.

Sono inoltre stati sottoposti all’esame della Commissione un considerevole numero di casi emblematici riguardanti le storie giudiziarie di donne che hanno segnalato le loro vicende processuali affermando di aver subito forme di vittimizzazione secondaria a causa del mancato riconoscimento della violenza domestica.

Nella Relazione vengono esposti ed analizzati:

  • la disciplina normativa nazionale ed internazionale riguardante la vittimizzazione secondaria ed i suoi indicatori (Capitolo I);
  • le risultanze dell’indagine campionaria compiuta presso i Tribunali civili ordinari (Capitolo II) e presso i Tribunali per i minorenni (Capitolo III);
  • le criticità emerse dall’esame dei casi specifici (Capitolo IV).
  • le raccomandazioni della Commissione in relazione alle più evidenti criticità emerse dall’insieme dell’indagine (Capitolo V).

Sintetizziamo le risultanze delle indagine:

A – Ambito dell’indagine svolta

L’allarmante diffusione di condotte di violenza domestica e nei confronti delle donne nella gran parte dei Paesi del mondo ha portato all’adozione di numerosi interventi normativi nazionali e sovranazionali per il suo contrasto. La radice culturale del fenomeno, per lungo tempo tollerato e sottovalutato, in quanto ritenuto espressione di costumi sociali consolidati, solo negli ultimi decenni ha visto una più incisiva presa di coscienza internazionale con l’elevazione del contrasto alla violenza domestica e nei confronti delle donne nell’alveo della tutela dei diritti umani, con la conseguente introduzione di norme puntuali e più efficaci.

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, nota come Convenzione di Istanbul, ha dettato specifiche disposizione per il contrasto ad ogni forma di violenza domestica, imponendo agli Stati che abbiano ratificato e dato esecuzione alla Convenzione, di dotarsi di una legislazione efficace, e di verificarne in modo costante l’effettiva attuazione da parte di tutti gli operatori, in particolare da quelli appartenenti al sistema giudiziario.

Nel contrasto al fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne, l’attenzione del legislatore e degli operatori giudiziari si è concentrata, a livello nazionale, principalmente nella repressione delle condotte penalmente rilevanti, con l’adozione di norme (cfr. da ultimo legge sul cosiddetto “codice rosso”, legge 19 luglio 2019, n. 69), che hanno previsto risposte sanzionatorie sempre più elevate, scelta certamente idonea a conseguire l’obiettivo prefissato, ma sicuramente non sufficiente, come dimostrato dalla incidenza statistica delle condotte di violenza domestica. La severa repressione penale di tutte le forme di violenza domestica, l’introduzione in forza delle norme richiamate di nuove fattispecie incriminatrici, di inasprimenti delle sanzioni già esistenti, rappresenta una valida risposta delle istituzioni per il contrasto del fenomeno, ma non ha affatto dimostrato di avere l’efficacia deterrente auspicata(!).

Infatti la richiamata radice culturale della violenza domestica, che induce a reprimerne solo le manifestazioni più gravi, quelle che emergono all’evidenza delle autorità giudiziarie penali, ha impedito al legislatore ed agli operatori di dedicare analoga attenzione ad un diverso ambito nel quale le condotte di violenza domestica, declinate in tutte le loro forme di violenza fisica, psicologica, economica, hanno presumibilmente la maggiore incidenza, quello delle relazioni familiari.

È, infatti, all’interno della famiglia che i rapporti fondati sulla prevaricazione e sulla sopraffazione esplicano gli effetti più gravi e devastanti. È tra le mura domestiche che si concentra il numero più elevato di violenze, che conseguentemente hanno la maggiore difficoltà ad emergere come fenomeno. Nelle relazioni disfunzionali basate su rapporti di prevaricazione del partner violento sull’altra, si realizza il cosiddetto “ciclo della violenza” che vede susseguirsi una prima fase nella quale si realizzano le condotte preliminari della violenza, cui seguono prima i comportamenti violenti, e poi fasi di ricostituzione del legame, nelle quali l’uomo violento promette di non reiterare le condotte aggressive, si mostra premuroso e tende ad attribuire la responsabilità a condotte esterne, in altre occasioni imputate invece alla stessa vittima, in modo da riconquistarne la fiducia, anche in nome dell’unità familiare.

In questo circolo, la donna, in posizione di soggezione rispetto al partner (in molti casi anche economicamente), finisce per riprendere la relazione fino al successivo episodio di violenza, in un ciclo ripetitivo che può susseguirsi per un lungo numero di anni. La mancata capacità dell’ordinamento e soprattutto degli operatori della giustizia (magistrati, avvocati, responsabili dei servizi socio assistenziali, consulenti) di individuare la violenza in comportamenti considerati – e sovente descritti dalla stessa vittima.

Tra i doveri principali di ogni genitore vi è quello di educare la prole, e poiché l’educazione si esplica con l’esempio, i comportamenti violenti posti in essere da parte di uno dei genitori in danno dell’altro hanno indelebili e negativi effetti sulla crescita del figlio. Con il conseguente e ulteriore rischio che il minore introietti modelli genitoriali distorti che producono danni immediati per le dirette conseguenze della violenza sull’equilibrio psico-fisico, e danni differiti nel momento in cui il figlio, crescendo, assumerà a sua volta ruoli genitoriali, poiché l’esposizione a modelli distorti può produrre la replicazione degli stessi.

Tali considerazioni, che oltre ad essere principi riconosciuti dal contesto scientifico internazionale costituiscono patrimonio della comune esperienza collettiva, non sempre sono adeguatamente valutate nell’ambito dei procedimenti civili e minorili che abbiano per oggetto la disciplina dell’affidamento dei figli minori (di cui all’articolo 337-bis e seguenti del codice civile) ovvero che abbiano ad oggetto domande di limitazione o di decadenza dalla responsabilità genitoriale (di cui agli articoli 330 e 333 del codice civile).

Peraltro, un attento esame della giurisprudenza di legittimità e di merito in materia, evidenzia come la Convenzione di Istanbul sia richiamata in provvedimenti giudiziari, a fronte della adozione della legge di ratifica nel 2013, solo a partire dagli anni 2017-2018: a partire da quegli anni, infatti, risultano editi provvedimenti, emessi da Corti di merito, che contengono un espresso richiamo alla Convenzione ed ai suoi principi, e solo a partire dagli anni 2020-2021 sono state adottate dalla Suprema Corte di Cassazione decisioni di legittimità che, nei procedimenti civili e minorili, richiamano espressamente questa fonte sovranazionale.

La sottovalutazione del fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne nell’ambito dei giudizi civili e minorili ha avuto come conseguenza il verificarsi di fenomeni di. vittimizzazione secondaria in danno delle madri e dei figli, esposti a condotte violente.

  1. La Vittimizzazione secondaria. Definizione

Una puntuale definizione di vittimizzazione secondaria si rinviene nella Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa secondo la quale «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima». La vittimizzazione secondaria colpisce le donne che hanno subito violenza soprattutto in ambito familiare e nelle relazioni affettive. La vittimizzazione secondaria, diversamente dalla vittimizzazione ripetuta da attribuire allo stesso autore, è quindi effettuata dalle istituzioni con cui la vittima viene in contatto, qualora operino senza seguire le direttive internazionali e nazionali, e non garantiscano comportamenti rispettosi e tutelanti, tali da non ledere la dignità personale, la salute psicofisica e la sicurezza della vittima, sia essa la donna sia esso il minore vittima di violenza assistita.

La Convenzione di Istanbul obbliga gli Stati che abbiano ratificato e dato esecuzione alla convenzione a contrastare la vittimizzazione secondaria. Nell’articolo 18 è previsto che le parti contraenti devono adottare le misure necessarie, legislative o di altro tipo, per proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza. Tale articolo, al comma 3, indica interventi puntuali finalizzati al raggiungimento di questo obiettivo disponendo che le Parti devono adottare misure che: «siano basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima; siano basate su un approccio integrato che prenda in considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e il loro più ampio contesto sociale; mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria; mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze; consentano, se del caso, di disporre negli stessi locali di una serie di servizi di protezione e di supporto; soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili.».

La forma più ricorrente e grave di vittimizzazione secondaria può realizzarsi nei procedimenti di affidamento dei figli, in conseguenza della mancata applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, nel quale si prevede che «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione». Il mancato accertamento delle condotte violente e la conseguente mancata valutazione di tali comportamenti nella adozione di provvedimenti di affidamento dei figli, ha come conseguenza l’emanazione di provvedimenti stereotipati che dispongono l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, senza distinguere tra il genitore violento e la genitrice vittima di violenza. Con conseguente imposizione alla madre, per provvedimento della stessa autorità giudiziaria, di assumere decisioni – peraltro sovente ostacolate dal genitore violento, con l’ulteriore pregiudizio per il minore che spesso rimane privo dei necessari interventi di sostegno – per i figli insieme con l’autore della violenza, con il rischio di essere di nuovo esposta ad aggressioni, a pressioni o a violenti condizionamenti.

Altra forma di vittimizzazione secondaria è rinvenibile nell’adozione di provvedimenti standardizzati, per la disciplina del diritto di visita del padre, quando i figli minori affidati congiuntamente ad entrambi i genitori siano collocati in via prevalente presso la madre; il mancato riconoscimento della violenza, o la sottovalutazione del fenomeno hanno come conseguenze l’omessa adozione di tutele per i figli e per le madri vittime di violenza, con il rischio che comportamenti violenti si realizzino di nuovo o in danno dei minori, nei periodi di frequentazione, o in danno della madre, nel momento in cui il padre prelevi o riceva i minori per l’esercizio del diritto di visita.

Sul punto la Convenzione di Istanbul, all’articolo 18, detta specifici obblighi positivi a carico delle Parti contraenti, al fine di scongiurare tale rischio, oltre a prevedere, all’articolo 15, che sia assicurata una formazione specifica alle figure professionali che si occupano di vittime e di autori di atti di violenza.

In applicazione delle vigenti disposizioni normative, in presenza di procedimenti civili o minorili che hanno per oggetto domande di affidamento di figli minori, nei quali la donna alleghi di essere vittima di violenza, possono essere pendenti altri procedimenti nei quali diverse autorità giudiziarie inquirenti e decidenti compiono gli accertamenti di competenza.

È di immediata evidenza come il mancato coordinamento tra le autorità indicate possa produrre gravi forme di vittimizzazione secondaria delle vittime di violenza domestica esposte, qualora chiamate a rievocare le violenze subite dinanzi a ciascuna delle autorità indicate, a tensioni e sofferenze, nonché al rischio di decisioni tra loro non coordinate e potenzialmente divergenti.

  1. Il Mancato riconoscimento della violenza domestica nei procedimenti civili e minorili

La mancata valutazione della violenza domestica nell’ambito dei giudizi civili e minorili che abbiano per oggetto domande di affidamento dei figli o domande attinenti la titolarità o le limitazioni all’esercizio della responsabilità genitoriale è stata oggetto di specifici monitoraggi da parte del Consiglio Superiore della Magistratura.

Con le delibere del 9 maggio 2018, del 4 giugno 2020 e da ultimo del 3 novembre 2021 il Consiglio Superiore della Magistratura, al fine di rendere più efficiente ed efficace la risposta giurisdizionale per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, ha evidenziato la necessità di una puntuale formazione e specializzazione per la trattazione di questi procedimenti, nonché di interventi per creare e migliorare i collegamenti tra il settore penale e il settore civile e minorile.

Nei procedimenti civili e minorili la prima difficoltà che emerge è il mancato riconoscimento della violenza domestica e molteplici sono le cause di questa criticità.

In primo luogo, tranne il già richiamato articolo 31 della Convenzione di Istanbul, nessuna disposizione normativa che regola la disciplina della titolarità o dell’esercizio della responsabilità genitoriale fa espresso riferimento alla violenza domestica come causa di revoca, sospensione o limitazione nell’esercizio della responsabilità genitoriale.

Le predette disposizioni hanno formulazioni ampie che richiamano genericamente violazioni o abusi in grado di realizzare un pregiudizio per il minore (articoli 330 e 333 c.c.) ovvero prevedono che il giudice possa derogare alla regola dell’affidamento condiviso, disponendo l’affidamento esclusivo dei figli ad uno dei genitori, nel caso in cui «l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore» (articolo 337-quater c.c.). Queste disposizioni sarebbero astrattamente idonee all’adozione di provvedimenti in grado di limitare, in misura più o meno ampia, la titolarità o l’esercizio della responsabilità genitoriale del genitore violento sul figlio. Tuttavia, nella loro concreta applicazione, la violenza come causa di pregiudizio per il minore non viene adeguatamente considerata, e ciò in quanto la violenza domestica, in alcuni casi, non viene riconosciuta, in altri viene minimizzata e ricondotta a mero conflitto tra i genitori. Una delle cause della mancata qualificazione dei comportamenti violenti come violenza domestica è la mancanza di specifica formazione degli attori del processo (avvocati, pubblici ministeri, giudici, consulenti tecnici, ausiliari, addetti al servizio socio assistenziale). Ciò può per esempio comportare che già al momento della proposizione della domanda di affidamento dei figli minori, quando presentata dal genitore vittima di violenza, possa accadere che gli stessi difensori della vittima, nell’atto introduttivo del giudizio, pur descrivendo condotte violente, le minimizzino ovvero le riconducano nell’alveo del conflitto tra coniugi o tra partner, non cogliendo le ricadute negative che queste condotte hanno avuto sui minori, giungendo quindi in molti casi a chiedere che venga disposto l’affidamento condiviso del figlio. Anche il Pubblico ministero, che secondo quanto previsto dall’ articolo 72 del codice di procedura civile è chiamato ad intervenire in tutti i procedimenti che hanno ad oggetto domande di affidamento dei minori, interviene

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