Giu 10, 2018 | Notizie | 0 commenti

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IL CAMBIAMENTO PASSERÀ ANCHE PER LA SCUOLA?

Il nuovo Governo in carica dovrà affrontare e risolvere diverse emergenze. Ovviamente, alla base della sfida si pone il nodo economico, da cui potrà effettivamente partire il cambiamento che la stragrande maggioranza dei cittadini si attende. Con la consapevolezza però che la questione economica è sì importante, decisiva, ma non assoluta o assolutizzante. I soldi possono tanto, ma non possono tutto. È Serge Latouche, economista e filosofo francese, a parlare dell’economia come nuova religione, constatando “l’onnipresenza della metafora religiosa nel discorso economico. L’economia si appropria di tutti gli attributi del fenomeno religioso, con tanto di chiese (le banche), cattedrali, comprese quelle nel deserto (le imprese), profeti, santi, sacerdoti (gli agenti di cambio), fedeli (gli azionisti), martiri, altari, sacrifici, miracoli, sacramenti e inferno. Certo, una metafora è solo una metafora ma ciò nondimeno è inquietante. Chi ha sostituito Dio? Il denaro, il mercato o la crescita? Oppure ci sono vari dèi?”

L’economia ha invaso e distrutto molti campi dell’esistenza umana ed è tempo che si giunga veramente ad un cambiamento, a un ridimensionamento e un riassetto delle priorità umane su quelle finanziarie. E uno degli ambiti che più ha sofferto in questi anni per una arrogante ed invasiva occupazione è stato quello della scuola, della cultura e dell’educazione in genere.

Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale sul Corriere della Sera, ha voluto suggerire al neo ministro Bussetti alcune minime modifiche, che secondo lui potrebbero fare la differenza in una scuola del cambiamento. Nella sua lettera accorata parla di dieci punti che potrebbero rendere la scuola migliore. Il suo lungo elenco procede: dal riposizionamento della pedana sotto la cattedra, per ristabilire il giusto rapporto pedagogico tra professore e alunno, alla reintroduzione dell’obbligo per gli studenti di alzarsi in piedi quando entrano ed escono gli insegnanti; dal divieto assoluto delle autogestioni, inutile perdita di tempo e di ore preziose di insegnamento, all’obbligo per gli stessi alunni di pulire e prendersi cura dei propri edifici scolastici; dal divieto assoluto di portare con sé lo smartphone, alla scelta per le gite scolastiche di mete italiane. Per finire, suggerisce di eliminare la presenza dei genitori e di qualunque ruolo della famiglia nella rappresentanza nell’istituzione scolastica, di sburocratizzare la funzione dei professori e di istituire una biblioteca ed una cineteca funzionanti tutti i pomeriggi di ogni giorno dell’anno, facendoli cogestire a professori e alunni.

I più progressisti storceranno il naso di fronte a tali semplici, economici suggerimenti, eppure essi stanno a significare delle attenzioni particolari per ridare alla scuola il suo vero senso, il suo più alto significato. Allo stesso tempo, però, queste “imbeccate” non colgono il nodo centrale del problema istruzione: la conoscenza.

La scuola è stata fagocitata dall’interesse economico ed è diventata una grande azienda in cui si preparano lavoratori. Si è persa totalmente di vista la sua primaria e centrale vocazione a dispensare conoscenza. Senza alcun altro interesse, senza secondi fini di aumenti di produttività o di sfruttamento delle risorse.

Gli insegnanti non possono più essere assimilati a manager aziendali o a personal trainer o a responsabili delle risorse umane. Gli insegnanti devono tornare ad essere i custodi della conoscenza, senza preoccuparsi di riempire continuamente moduli e scartoffie varie, senza avere l’assillo degli obiettivi da raggiungere, ma solo con la preoccupazione di dare il meglio di sé e con la consapevolezza di stare tramandando un sapere prezioso.

Allora, andranno sempre bene le innovazioni tecnologiche o il ritorno a gestioni più tradizionali, ma se una scuola non palpita di conoscenza e non fa innamorare gli studenti della cultura in sé e per sé, senza altri interessi di sorta, essa avrà sempre mancato il bersaglio e sarà sempre inutile continuare a riformare una istituzione che cambia vestito, ma che rimane pur sempre vuota dentro.

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