“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere” (Franco Basaglia).
Ricorre in questi giorni il Quarantennale della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 180/78 sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, meglio nota come Legge Basaglia, dal nome del suo ideatore, lo psichiatra Franco Basaglia.
Scopo della sua rivoluzionaria idea di psichiatria era quello di coinvolgere tutte le istituzioni più importanti per la vita di un malato mentale: famiglia, scuola, lavoro. L’antipsichiatria (corrente scientifica di cui faceva parte Basaglia) rifiuta il modello medico biologico della malattia: un modello fortemente impregnato di sostanziale libertà e anti-istituzionale, secondo il quale non si deve agire in difesa del malato mentale, ma pensare solo di ricondurlo nell’ambito di una norma stabilita dal “potere”. Il manicomio negli anni ’60 era una sorta di carcere per persone socialmente scomode: individui diversamente abili, omosessuali e tutti coloro che “davano fastidio al sistema”. Il manicomio non guariva, conteneva; era una sorta di carcere per i malati di mente o presunti tali: le persone venivano torturate ed era difficile restare sani di mente quando le torturavano legandole al letto, facendo bagni caldi e freddi, praticando l’elettroshock o mettendo intorno al collo un panno bagnato di urina. Si attuava una vera e propria violenza, travestita da controllo sociale della devianza: questa era la psichiatria ai tempi di Basaglia. E questa è stata la chiave della trasformazione dei manicomi che porta all’elaborazione della nuova legge, con la quale si modifica la legge del 1904 per cui il malato di mente era un soggetto pericoloso per sé e per gli altri. La psichiatria tradizionale era accusata di non comprendere i sintomi della malattia mentale. E Basaglia denuncia le scelte della psichiatria del tempo, contaminate dall’ideologia politica: l’eccessiva politicizzazione comporta o crea il rischio di una possibile utilizzazione per finalità eufemisticamente definibili “extra-assistenziali”, sia che il malato mentale venga considerato “vittima sociale”.
Basaglia soleva dire ai medici dell’ospedale psichiatrico di Gorizia che “il malato di mente entra in manicomio come persone per diventare una cosa”. Applicò, dunque, un moderno metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale alla stregua di un individuo pericoloso ma, al contrario, un essere del quale sottolineare, anziché reprimerle, le qualità umane. Il malato è di conseguenza in continui rapporti con il mondo esterno, in quanto gli è permesso di dedicarsi al lavoro e al mantenimento dei rapporti umani. Ma al cambiamento di rotta indotto dalla legge 180, sebbene valido sul piano pratico e della dignità umana, purtroppo non è corrisposto un adeguamento da parte istituzionale: i pazienti vengono dimessi e in tempi successivi non più ricoverati, in assenza pressoché totale di strutture territoriali; le famiglie, inadeguate o meno, sono costrette a sobbarcarsi l’intera assistenza sanitaria; i pazienti più violenti o aggressivi sono equiparati a quelli più tranquilli e in assenza di cure, si assiste a una cronicizzazione della popolazione dei malati e in diversi casi a peggioramenti; i familiari, costretti a convivere con una persona spesso delirante e non in sé, subiscono gravi conseguenze, quali separazioni, maltrattamenti, suicidi; i familiari sono spesso incolpati di essere la causa e la colpa della malattia mentale; le famiglie non sono ascoltate (i Centri non rispondono alle istanze familiari, il familiare stesso è considerato alla stregua del paziente, non affidabile ed emotivo; il suo giudizio non conta, nonostante esso sia in prima linea).
La legge avrebbe dovuto creare diverse forme di assistenza che invece sono rimaste di fatto lettera morta in tutti questi anni: assistenza h 24, i servizi, gli appartamenti per l’accoglienza dei malati. In sostanza il malato mentale, lasciato il manicomio sarebbe stato ospitato all’interno di micro strutture protette supportate dalle Asl e dalle Regioni e lì vivere, in alcuni casi anche con lo svolgimento di lavoretti socialmente utili. Invece, ha vinto la “normalizzazione” attraverso l’uso eccessivo di psicofarmaci. Niente ha funzionato, né le istituzioni che non si sono mosse (per convenienza) da una visione retrograda della malattia, né la medicina (anche essa per convenienza) che ha scelto di sviluppare unicamente la via farmaceutica. Invero, sono state le famiglie, con il loro calore, con il loro amore, a considerare per la prima volta i matti come persone. Le famiglie hanno salvato questi malati dando loro, nel dolore, nel sacrificio e nel pianto, un concetto di persona che difficilmente avrebbero ottenuto.
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