mercoledì 27 Settembre 2023

In seguito alla partecipazione del nostro ufficio stampa agli Stati generali dell’informazione degli uffici stampa del 29 gennaio scorso, come civicratici ci siamo posti una riflessione sull’indipendenza del giornalismo dal potere politico e sul linguaggio che un buon comunicatore deve utilizzare.
Abbiamo affrontato la questione con il vice-presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio e presidente nazionale del Gus (Gruppo giornalisti uffici stampa), il Dott. Gino Falleri, che ha gentilmente concesso un’intervista al nostro giornalista Antonio Visicchio.

Ecco cosa gli abbiamo chiesto:


Dott. Falleri, alla luce del fallimento della legge 150/2000 a quasi 10 anni dalla sua emanazione, quali sono secondo Lei i correttivi da apportare nell’immediato per rilanciare realmente e obbligatoriamente il ruolo dell’Ufficio stampa nella P.A.?

Alla vigilia della sua approvazione tra i giornalisti c’erano molte aspettative e speranze, che dopo pochi mesi sono svanite come la nebbia ai primi raggi del sole. Le ragioni non sono poche a cominciare dall’aver conferito alla Pubblica amministrazione la potestà di istituire o no gli uffici stampa come di avvalersi o no del portavoce. Il legislatore non dovrebbe concedere spazi di discrezionalità. Questo è il primo elemento negativo della legge sulla Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Il secondo è costituito dalle problematiche relative alla formazione e alla dovuta iscrizione all’ordine per i componenti degli uffici stampa.
Se si deve dare un peso a quanto ha voluto di recente scrivere il Gabinetto del Ministero dei Beni Culturali, in risposta ad una lettera dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio, si potrebbe asserire che nel nostro Paese l’Esecutivo non tiene nella dovuta considerazione quanto impone il legislatore. Anche perché se esistono sanzioni queste sono somministrate con il bilancino.
La proposta di regolamentare l’attività degli uffici stampa presenti o da istituire nella Pubblica amministrazione parte da molto lontano. Dallo stesso momento in cui i poteri “ costituzionali “ sono stati affidati dagli Alleati ai nostri governanti e siamo a gennaio del 1946. I giornalisti,  già durante il Regno del Sud, avevano affermato a più riprese che l’informazione in un paese democratico e pluralista era un bene inalienabile e ritenevano che la Pubblica amministrazione non dovesse più essere una specie di fortezza dove tutto doveva restare segreto. Di qui l’impegno per far sì che attraverso i messaggi si aprisse ai cittadini, non più sudditi.
La Pubblica amministrazione dopo 64 anni è cambiata? La risposta, a parte il decennio aureo rappresentato dagli anni Novanta, non può essere positiva poiché manca ancora una cultura del servizio e l’orgoglio di esserne protagonisti. Sono i cittadini al centro dell’azione della Pubblica amministrazione ed il principio gerarchico ne è l’elemento negativo. Nello stesso tempo, per una serie di ragioni, non si ha una appropriata cognizione dell’influenza che ha l’informazione e deve essere intesa in maniera diversa dalla comunicazione. La soluzione? Ci vorrebbe un cambio di mentalità e inoltre stabilire che il giornalista delle cosiddette istituzioni rientra a pieno titolo tra le professionalità che si avvale l’apparato pubblico e se ne stabiliscono i requisiti per accedervi. Non elementi esterni, ma già presenti nei quadri che assicurano una più che sufficiente conoscenza dell’apparato. In buona sostanza applicare senza riserve il disposto del secondo comma dell’articolo 9.

Spesso si lamenta la scarsa indipendenza del giornalista dell’Ufficio stampa dal potere politico. Come si può ovviare e quali sono i reali poteri di intervento dell’Odg?

Avrei una idea diversa. Il giornalista, sia iscritto nell’elenco professionisti o in quello dei pubblicisti, risponde innanzitutto all’articolo 2 della legge sull’Ordinamento della professione, che è stata approvata nel febbraio del 1963. Ha l’obbligo di riferire la verità. Un precetto che ritroviamo nella Carta dei doveri del luglio 1993. E’ il responsabile della corretta informazione e una siffatta responsabilità non è subordinata agli interessi dell’editore, del governo e dei terzi e la Carta deve essere osservata anche dall’addetto stampa. Il cittadino deve essere correttamente informato, anche se talvolta ci si interroga se  sia sempre così.
C’è da ricordare che l’addetto stampa è una fonte primaria ed in secondo luogo occorre anche fare qualche distinguo. Il non indipendente, e non in senso assoluto, è il portavoce, che, oltre a non aver l’obbligo di essere iscritto all’albo, è il fiduciario  dell’autorità di vertice. L’addetto stampa essendo una fonte è meno soggetto a possibili condizionamenti, ma questi non possono essere esclusi a priori. Qualche anomalia potrebbe verificarsi nelle istituzioni elettive, quelle che rispecchiano gli schieramenti parlamentari e dove la politica ha il suo peso,  non negli enti pubblici a dimensione nazionale che hanno il compito di applicare e realizzare quanto ha disposto il legislatore.
Comunque tutto è possibile. Per completare il concetto non si può omettere di ricordare che esistono giornali di informazione e di opinione e quest’ultimi forniscono le loro versioni.
L’Ordine professionale cosa fa nell’ipotesi di scarsa indipendenza? E’ senz’altro una bella domanda da calare su quelle che sono le competenze che il legislatore ha attribuito all’ente pubblico. La giustizia intra moenia non mi affascina come le non istruttorie, la valutazione dei fatti e situazioni senza effettuare i dovuti controlli e riscontri, nonché uscire dalle competenze che il legislatore ha stabilito. La terzietà è del giudice ordinario.
Se viene segnalato o rilevato qualche caso che entra in rotta di collisione con la deontologia, l’Ordine interviene. Roma e Milano non si sono mai tirati indietro ed hanno sanzionato chi ha violato le varie carte dei doveri. Non ha un potere di controllo e di intervento su quanto viene detto o scritto. Lo può, legge alla mano, direttamente o su segnalzione se ci sono macroscopiche inesattezze. In caso contrario potrebbe essere accusato di attentato alla libertà di espressione, che come si sa è garantita dall’articolo 21 della Costituzione, nonché dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La subordinazione al potere politico, spesso porta alla mortificazione e allo svilimento del ruolo del giornalista all’interno della P.A. che è costretto suo malgrado ad utilizzare lo stesso linguaggio artefatto dei politici. Come si può scongiurare a tale deriva e a quali obiettivi un buon comunicatore deve rifarsi?

Nel nostro Paese la “ politica “ ha occupato quasi tutti gli spazi e la meritocrazia, con il passare del tempo, sta diventando una utopia. Se non altro anche a causa dello spoil system ogni qualvolta ci sia un cambio di maggioranza nelle istituzioni elettive. Così nei posti chiave  vengono chiamati con frequenza coloro che possono essere considerati più vicini allo schieramento vincente. Tuttavia non sempre i cambi arricchiscono. Questo stato di cose può portare ad un appiattimento ed a ritenere che il giornalista delle istituzioni sia subordinato al potere politico.
Invece l’addetto stampa è un garante. I suoi punti di riferimento sono innanzitutto la sua professionalità, le Carte dei doveri e da ultimo il Codice del giornalista delle istituzioni da poco approvato. Se viola queste regole, irrinunciabili per una corretta informazione, si pone fuori del sistema e di conseguenza dovrebbe rispondere della sua condotta al giudice disciplinare ovvero al Consiglio dell’ordine di appartenenza. L’uso del condizionale è d’obbligo.
Il linguaggio è importante nel non facile mestiere dell’addetto stampa. Secondo le collaudate regole nelle prime righe di un qualsiasi comunicato ci dovrebbe essere la notizia ed il testo deve essere redatto in maniera chiara, di facile comprensione ed a valenza collettiva. Deve interessare la collettività, scevro da contenuti promozionali o  di propaganda. Niente uso del linguaggio burocratico di non facile comprensione o quello politico a triplice interpretazione. Una delle Carte dei doveri, la prima, riguarda appunto l’informazione e la pubblicità. Tutte le iniziative che il Gruppo Giornalisti Uffici Stampa ha intrapreso dal Congresso di Salerno, siamo ad ottobre del 1970, fino ad arrivare alla legge 150 hanno sempre ruotato sulla valenza collettiva e sulla trasparenza dell’attività dei soggetti pubblici.

 

Cosa auspica nell’immediato futuro degli Uffici stampa e come questi ultimi possono rilanciare la figura del cittadino ponendosi da tramite col potere costituito per giungere così a politiche condivise?

La Pubblica amministrazione è lo strumento attraverso il quale il legislatore realizza le sue finalità, che altro non sono che fornire servizi e favorire il benessere dei cittadini. La 150 all’articolo 1 ha fissato quali sono gli obiettivi da perseguire e non mi sembra che nell’Unione europea sia stata approvata una legge più avanzata della nostra. Anche se, come ha sottolineato Sergio Talamo, un autorevole docente, è difficile uscire dalla logica dei comunicati e degli sportelli ed arrivare a quella del servizio. Al cittadino cliente.
L’auspicio è uno solo. E’ stato ampiamente sottolineato in occasione del recente convegno sulla “Solitudine degli uffici stampa”, organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa. La 150 deve trovare pratica attuazione. Ed è sintomatico il ritardo decennale per stabilire il profilo del giornalista delle istituzioni e la sua regolamentazione.
Non interessa soltanto i comunicatori ed i giornalisti, che ne sono i soggetti propulsori, ma il cittadino titolare della sovranità in prima battuta, poiché chiede risposte concrete alla sua crescente domanda di informazione, ed interessa la stessa Pubblica amministrazione. Attraverso di essa dovrebbe essere consapevole di assolvere una “mission”, come si usa dire ora, e nel suo interno non mancano le dovute professionalità.

Civicrazia è sinonimo di “Svolta” e di rilancio: come il giornalista della P.A. può trasmettere questo positivo messaggio nel cittadino che oggi sembra più che mai assorto e distante dai luoghi della politica?

Senza dubbio Civicrazia significa svolta, cambiamento. I suoi appelli e messaggi incominciano a trovare le giuste sponde. Da noi il tempo delle riforme per quanto auspicato non è ancora arrivato ed una di queste, non più procrastinabile, riguarda proprio  la  Pubblica  amministrazione.  I nostri  cugini  francesi  hanno  l’Ena, il “tempio” dove si sono diplomati i più prestigiosi uomini politici che hanno calcato la scena nazionale ed internazionale. Per far arrivare i messaggi, e questi abbiano i risultati prefissi, necessita una dirigenza pubblica di alto livello ed una classe di giornalisti di eccellente formazione assicurata dall’Università o dai Master,  organizzati da soggetti a loro volta di alto profilo. Se esistono le dovute basi culturali e professionali, i programmi o gli obiettivi possono essere realizzati o centrati. Si  può  così  coinvolgere  il  cittadino  e farlo partecipare e ricondurre la “politica” nei suoi giusti ambiti e competenze.

 

 Le telecamere e l’ufficio stampa di Civicrazia erano presenti venerdì 29 gennaio agli Stati generali dell’informazione degli uffici stampa, promossi dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e della FNSI, "La solitudine degli uffici stampa".

Il video:

Oltre ad una ripresa dell’evento, proponiamo un angolo di approfondimento sulla trasparenza della comunicazione pubblica:
 

Comunicazione istituzionale e uffici stampa: l’indipendenza va garantita 

La comunicazione istituzionale nasce dall’esigenza delle istituzioni, siano esse centrali, locali e periferiche di informare correttamente il cittadino sulle attività in corso e sulle possibilità offerte, rispondendo contemporaneamente al bisogno civicratico di chiarezza e trasparenza in merito al proprio operato. L’obiettivo è quello di contribuire alla definizione di un’immagine precisa e credibile dell’istituzione e della pubblica amministrazione.
In tal senso, dopo la L. 241/90, la legge più importante è stata la L. 150/2000, in quanto perfeziona un processo, che ha visto la radicale trasformazione del rapporto tra cittadino e PA, confermata anche dalla visione proposta dal Piano e-government per l’Italia. Il cittadino e le imprese devono essere al centro dell’attenzione, le procedure amministrative devono adeguarsi alla domanda, la trasparenza dei procedimenti e la relativa semplificazione sono un obbligo, così come l’integrazione fra uffici diversi delle PA, sia locali che centrali. Una vera e propria rivoluzione, una nuova dinamica che richiede rapidi cambiamenti nella cultura di governo.
Una legge, la 150/00, chiude il decennio delle riforme amministrative, rappresentando al tempo stesso, un punto di arrivo e un punto di partenza: punto di arrivo, perché disciplinare legislativamente le attività di informazione e di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni vuol dire riconoscere che se fra Amministrazioni e cittadini non c’è comunicazione se questi ultimi non sono realmente tali, e punto di partenza, perché da essa bisogna muovere per spostare ancora più avanti i confini della cittadinanza amministrativa.

Nella società dell’informazione, se le Pubbliche Amministrazioni non comunicano (che è cosa diversa dal semplice informare),  i cittadini non possono essere sovrani, al massimo possono essere utenti o clienti. E’ difficile che possa esserci una buona comunicazione pubblica laddove l’amministrazione non rispetta le esigenze dei cittadini e i principi civicratici di efficienza, imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa.
In questo senso, la 150/2000 è anche l’affermazione di un duplice principio: principio etico (deontologico) e sostanziale, in quanto incipit di un percorso di revisione della pubblica amministrazione e dei rapporto di quest’ultima con il Cittadino. Ciò perché la 150 è solo in parte obbligatoria, ed in parte un’opportunità lasciata all’intuizione di dirigenti pubblici illuminati e – spesso – manca la coscienza civica necessaria a saperne cogliere il beneficio.
Dall’emanazione della 150, dunque,la comunicazione pubblica si è sempre più legittimata quale obbligo istituzionale e al tempo stesso quale opportunità e risorsa da investire per determinare sostanziali cambiamenti nel rapporto tra cittadini e Amministrazione, tra Amministrazione e società. Un cambiamento misurabile in termini di recupero di immagine, di fiducia e di affidabilità.
Eppure, di fatto, il paradosso è che, a dieci anni della sua entrata in vigore, la Legge 150/2000 resta parzialmente una direttiva aleatoria, spesso non applicata nemmeno dai principali soggetti preposti alla sua attuazione: Stato, Comuni, Provincie, Regioni, Comunità montane, ASL. La legge resta una vana, pur se importantissima, operazione di principio volta a portare l’etica e la deontologia del giornalista anche all’interno della pubblica amministrazione. Si tratta di una sconfitta? Niente affatto. La legge sarà una sconfitta solo se non sarà portata a compimento fornendole strumenti attuativi, in primis le sanzioni da associare alla sua non applicazione. E’ essenziale trovare la volontà politica di attuare le indicazioni del legislatore nazionale.

L’Italia sembra essere invece un Paese in cui le regole fanno paura. La malapolitica utilizza l’informazione e la comunicazione pubblica solo nella fase terminale del processo politico (l’emanazione del classico comunicato stampa o il concepimento del sito istituzionale come sorde vetrine dello status quo del potere della pubblica amministrazione o di questo o quel comune,  regione, etc.), mentre invece l’informazione dovrebbe essere propedeutica al processo decisionale, sul piano della conoscenza e del dialogo con il cittadino – che ha diritto di aver voce, come di essere ascoltato -.

C’è un interesse politico nel tenere sotto guinzaglio giornalisti, uffici stampa e comunicatori pubblici, privati di fatto della propria libertà economica; l’unica loro scelta resta finire di fare l’attendente di questo o quella forza.
Spetta ai comunicatori pubblici, all’Ordine, ai Sindacati, e ai cittadini in primis, sollecitare l’esercizio di tale funzione, nel rispetto rigoroso dei principi generali indicati dalla legge 150. Si tratta di concorrere a stabilire l’obbligatorietà, all’interno di ciascuna Amministrazione, di una struttura organizzativa diretta da un comunicatore pubblico, che presidii e coordini progetti, azioni, servizi e strumenti di comunicazione interna ed esterna.
L’informazione pubblica deve essere indipendente dal pubblico potere. Il principio è semplice quanto innovativo: l’informazione non deve essere più considerata strumento di governo, ma patrimonio da condividere con gli altri uffici pubblici e con il cittadino. Quest’ultimo finalmente non dovrà più preoccuparsi di quale sia l’ufficio erogante quel dato servizio, ma dovrà avere un’unica interfaccia nella Pubblica Amministrazione. Occorre, a tale scopo, rivedere anche le logiche della cooperazione fra enti e l’integrazione di competenze orientandole al parametro della customer satisfaction.
Nell’erogazione del servizio, comunicarlo è elemento essenziale per la soddisfazione del cittadino.

Occorre pertanto un ripensamento della macchina amministrativa e del rapporto fra cittadini ed istituzioni.

Le implicazioni di questa riflessione possono essere colte solo se si riconosce dietro al concetto di comunicazione pubblica l’idea di flussi informativi bidirezionali tra cittadini e pubblica amministrazione. Si tratta di un’idea non scontata, specialmente alla luce della storia della pubblica amministrazione in Italia. La comunicazione pubblica, dunque, si realizza solo laddove c’è un’autentica interazione, a due vie, tra cittadini e Stato. Laddove c’è solo il monologo dell’istituzione pubblica potremo avere uno Stato che comunica, magari nel senso deteriore del termine propaganda, ma non avremo comunicazione pubblica.
In questo quadro, un ulteriore impulso allo sviluppo e al radicamento della comunicazione pubblica può e deve essere rintracciato nell’attuazione normativa delle Regioni e dell’Europa (non a caso in Italia le uniche riforme attuate da una politica in piena paralisi sono le direttive che giungono da Bruxelles).
In questo modo la comunicazione diverrà una reale “risorsa delle risorse”, in cui centrale è la figura dell’ufficio stampa pubblico. Proprio su questi uffici è il caso di soffermarsi perché hanno subito nell’ultimo decennio una profonda evoluzione e talvolta un’involuzione.

Ad oggi ciò che occorre chiedersi è: “Vogliamo il loro declino o il loro rilancio?” Non se ne possiede un censimento come non se ne conoscono le condizioni operative. Spesso, inoltre, gli stessi giornalisti ignorano i colleghi degli uffici stampa, etichettandoli operatori di serie B, lacchè di partito, portaborse, comunicatori aziendali, semplici impiegati da scrivania.  Eppure proprio chi opera negli uffici stampa dovrebbe altresì avere un ruolo primario nell’informazione, essendone il primo anello, la fonte, il collante sociale con i Cittadini. Invece gli operatori degli uffici stampa non sono necessariamente giornalisti e, quando lo sono, non vengono percepiti come tali, perché – forse – non sono nella condizione di operare da giornalisti. Il giornalista, secondo la carta dei doveri, è infatti colui che diffonde contenuti di pubblico interesse, che per tale ragione si assume una responsabilità diretta verso i propri lettori e verso i cittadini in toto, facendosi garante dell’ obbligo inderogabile di rispettare la verità, e di rispondere ad essa e solo ad essa prima ancora che al proprio direttore responsabile.

Può esserlo allo stato attuale il dipendente di un ufficio stampa che, inquadrato come dipendente pubblico, è tenuto a rispettare la gerarchia della Pubblica Amministrazione da cui dipende, costretto spesso a dover difendere una precisa posizione aziendale – con la conseguente necessità di dover affrontare il problema pratico dell’opportunità di dare o meno la notizia -? E’ una riflessione da porsi.
Un cambiamento è necessario.

Occorre sfruttare le potenzialità di questa fase di trasformazione epocale dei mezzi di produzione dell’informazione
Basterebbe sfruttare gli strumenti che ci sono già: la L. 150/2000, la Legge dell’Ordine che così motiverebbe il suo senso, chiedendo una vera riforma della categoria. La legge ha già definito la strada, quelli che dovrebbero essere il ruolo o il profilo dell’ufficio stampa – tra l’altro di intesa con i sindacati confederati  -.
Alla base di questo percorso di cambiamento non possono che esserci le nuove tecnologie dell’informazione e l’avvento di Internet e delle reti telematiche: le informazioni corrono in rete, i servizi devono essere erogati attraverso la rete e quindi l’amministrazione pubblica, di fronte a questa realtà, deve attrezzarsi per rispondere in modo adeguato. D’altra parte il Piano e-Europe 2000-2002 per la società dell’informazione, proposto dalla Comunità europea, non aveva lasciato spazio agli indugi.
Nella catena del valore della comunicazione via web, intesa come produzione e offerta di servizi al cittadino, le strutture preposte alla comunicazione ”di servizio”, possono svolgere per prerogativa e vocazione istituzionale un ruolo più forte e determinante di quello finora avuto.
Occorre muoversi al più presto e senza indugi perché, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni – anche grazie alla spinta impressa dalla riforma della Funzione Pubblica – la percezione che i cittadini hanno della PA è ancora negativa, al punto che spesso la vedono come un’entità distante e ostile.

Bisogna puntare su un nuovo e più avanzato orientamento delle funzioni degli URP, uffici che il nostro ordinamento prevede quali principali strutture di facilitazione d’accesso dei cittadini ai servizi pubblici. Chi ”fa” l’URP infatti conosce l’ente e lo sa rappresentare, conosce l’utente e lo sa ascoltare, conosce la domanda di servizio e la sa monitorare e prevedere. La mission deve essere fare comunicazione, ascolto, trasparenza e innovazione, tenendo conto delle nuove forme di interazione che la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione rende possibili anche nelle organizzazioni pubbliche. E, soprattutto, spingere le strutture della comunicazione pubblica ad essere parte attiva dell’attuazione della cittadinanza elettronica e della garanzia dei diritti d’accesso ai servizi on line.
Cosa possono fare i comunicatori delle istituzioni per ribaltare la visione dei cittadini? Votarsi ad una comunicazione chiara (l’utilizzo di un linguaggio semplice e comprensibile, evitando le iperboli del politichese ), diretta (la comunicazione deve rivolgersi ai cittadini e agli utenti che sono i fruitori dei servizi pubblici) e accessibile (vicina a chi parla e raggiungibile da chiunque abbia bisogno di informazioni). Riportare i fatti, non le opinioni, questa l’unica via se si ambisce davvero alla verità, senza puntare a pericolose spirali ideologiche. Queste, in sintesi, le principali linee guida. Una volta chiarito ciò, è necessario da parte delle istituzioni individuare: canali, mezzi di comunicazione e modi della comunicazione (nel linguaggio, nel tono e nella forma) adeguati. Inoltre occorre rivedere vicinanza e comodità degli sportelli, preparazione, professionalità, competenza del personale (eliminando i concorsi blindati e assicurando la trasparenza dei curricula), orientamento al cliente, qualità delle informazioni rese disponibili al cittadino e utilità, celerità e certezza nei tempi di risposta.
Occorre affermare la cultura del servizio. Il comunicatore pubblico deve dare risposta concreta a quelle che sono le domande del Cittadino; per far ciò è essenziale che non svolga il suo ruolo di giornalista da un piedistallo o dentro le quattro mura di un pubblico ufficio e che si garantiscano i requisiti principe della comunicazione: notiziabilità, chiarezza ed ascolto. Il web 2.0 e l’importanza del feed-back rivestono un ruolo centrale nella bidirezionalità della comunicazione.

La L. 150/2000 va rivista proprio alla luce dell’evoluzione del quadro comunicativo, che è profondamente cambiato in dieci anni. Non si contemplava, infatti, il ruolo del web, dei siti istituzionali, di molte funzioni degli urp, dei call center, dei social network, di You-Tube, delle newsletter, delle web tv e del digitale terrestre (in quest’ultimo caso emblematica è stata la mancanza di una corretta e completa informazione in occasione dello switch-off delle prime regioni).
Il comunicatore pubblico solo così potrà essere, non solo utile al Cittadino, ma di sprone anche agli stessi amministratori e al potere politico in una democrazia davvero tale. Per esserlo, è essenziale che la libertà di espressione del giornalista di ufficio stampa  sia maggiormente tutelata.

L’indipendenza del comunicatore pubblico è bene imprescindibile per la collettività. Pertanto non deve subire freni e condizionamenti dettati dalle logiche della stessa pubblica amministrazione per ragioni di subordinazione contrattuale (instabilità lavorativa di co.co.co, co.co.pro, contratti legati alla durata in carica di questa o quella parte politica), economica o di ruolo (per l’ordinamento gerarchico della pubblica amministrazione). E’ difficile in queste condizioni tenere la schiena dritta. Il giornalista per essere effettivamente tale, parlando di deontologia, deve essere veritiero e libero  di fornire al lettore un’informazione corretta e completa; dovrebbe poter essere la fonte primaria nonché il garante della verifica della correttezza dell’informazione e parte integrante del dibattito politico, così come dovrebbero esserlo i cittadini.
 

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