Ott 6, 2025 | Battaglie | 0 commenti

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VIOLENZA DOMESTICA E SENTENZA DI TORINO: IL RISCHIO DI UN ARRETRAMENTO

VIOLENZA DOMESTICA E SENTENZA DI TORINO: IL RISCHIO DI UN ARRETRAMENTO

La sentenza n. 2356/2025 del Tribunale di Torino non è un semplice caso giudiziario, ma un vero e proprio campanello d’allarme sullo stato della giustizia italiana in materia di violenza domestica. Questa decisione, che ha assolto un uomo dall’accusa più grave di maltrattamenti in famiglia, pur condannandolo per le lesioni, sembra tradire gli sforzi compiuti negli ultimi anni per tutelare le vittime, in particolare le donne. Leggendo le motivazioni, emerge il timore di un preoccupante arretramento culturale nell’applicazione della legge.

 

Lo Scontro tra Tribunale e Cassazione: Una Prospettiva Deformata

Il punto di maggiore criticità risiede nel netto contrasto con i principi stabiliti dalla Corte di Cassazione. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito più volte la necessità di adottare una “prospettiva di genere” nell’analisi dei crimini domestici. Cosa significa? Significa riconoscere che la violenza non è un conflitto “neutro”, ma è spesso inserita in una dinamica di dominio e controllo maschile sulla donna.

La Cassazione, con pronunce come la n. 39554/2024, avverte di non cadere in una “lettura ridimensionante e parcellizzata” delle condotte violente. Ebbene, la sentenza torinese sembra aver fatto esattamente questo. Il Tribunale ha minimizzato i comportamenti dell’imputato, arrivando persino a giustificare l’ira dell’uomo con l’espressione: “e come dargli torto?” riferita al suo risentimento verso la moglie. Un’affermazione che suona come una vera e propria giustificazione morale dell’aggressore, inaccettabile e in aperto conflitto con gli standard più avanzati della nostra giurisprudenza.

 

La Doppia Vittimizzazione: non si può spostare l’attenzione sul comportamento della Donna vittima

Particolarmente allarmante è l’atteggiamento adottato nei confronti della vittima. La Cassazione è stata tassativa: nei reati di genere, la testimonianza della persona offesa deve partire da un’ipotesi di attendibilità, a meno di elementi specifici che dimostrino il contrario. Soprattutto, è “vietato spostare l’attenzione dalle condotte dell’autore a quelle della persona offesa”, perché questo genera una “vittimizzazione secondaria”.

Il Tribunale di Torino ha disatteso questi limpidi e inviolabili principi. Invece di concentrarsi sui maltrattamenti, ha rivolto il suo sguardo sul presunto comportamento “non ineccepibile” della moglie, colpevolizzandola per come aveva gestito la separazione. L’uso di un linguaggio stereotipato come “donna adultera” non solo è fuori luogo in una sentenza, ma rievoca pregiudizi culturali che la Convenzione di Istanbul vieta espressamente. In pratica, la vittima è stata processata due volte: prima dal suo aggressore e poi in tribunale.

 

Confondere Terrore e “Normale Dialettica Familiare”

Un altro grave errore interpretativo è stato quello di confondere il clima di terrore descritto dalla donna con una “normale dialettica familiare”. La giurisprudenza più recente ha chiarito che non si può definire “conflitto” ciò che in realtà è un modello abituale di intimidazione, minacce, controllo e violenza psicologica.

Il reato di maltrattamenti non richiede solo violenza fisica; si nutre anche di violenza psicologica ed economica, creando una relazione di dominazione che annienta la libertà della donna. Gli insulti sistematici e le umiliazioni, seppur non sempre sfociati in lesioni fisiche gravi, rientravano chiaramente in questo quadro di controllo. Ridurli a “normale dialettica familiare” deforma la realtà e ignora l’effettiva portata del reato.

 

Le implicazioni sulla tutela e la necessità di Formazione

Le conseguenze di questa sentenza sono devastanti e riapre tematiche che pensavamo superate. Questo non solo è in contrasto con la Convenzione di Istanbul e le riforme del Codice Rosso, ma rischia di scoraggiare le denunce, alimentando la sfiducia delle donne nel sistema giudiziario.

Il caso di Torino mette in luce l’urgenza di una formazione specializzata per tutti gli operatori del diritto. Non si tratta solo di conoscere la legge, ma di saperla applicare con quella “prospettiva di genere” che evita una sorta di “nuovo delitto d’onore” travestito da attenuante o, come è avvenuto, addirittura la minimizzazione della violenza. La dignità delle vittime e la credibilità della giustizia dipendono dalla capacità di giudici e avvocati di liberarsi da stereotipi e pregiudizi.

In definitiva, la sentenza n. 2356/2025 è un monito per tutte e tutti: la legge, da sola, non basta. Senza un approccio interpretativo consapevole e rispettoso dei diritti fondamentali delle donne, il rischio è che si continui a produrre decisioni che infliggono una ferita profonda alla fiducia nella giustizia da parte di chi ha già subito il trauma della violenza e di chi comunque lotta per la Giustizia.

Rosaria Salamone, Avvocato

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