LE DONNE DETENUTE: UNA REALTA’ NASCOSTA DA AFFRONTARE SPECIFICAMENTE
LE PRESENZE
Al 31 marzo 2025, le donne detenute nelle carceri italiane erano 2.703, rappresentando il 4,3% del totale della popolazione carceraria. Questa percentuale è rimasta sostanzialmente stabile nel corso degli anni. Le carceri interamente femminili sono diventate solo tre dopo la chiusura del carcere di Pozzuoli nel 2024 (Rebibbia a Roma, Giudecca a Venezia e Trani), e la maggior parte delle donne detenute si trova invece in reparti femminili all’interno di istituti maschili.
I dati ministeriali riportano poi che al 31 agosto erano presenti 52 detenute madri con 62 figli al seguito, 27 sono italiane con 33 figli e 25 straniere con 29 bambini al seguito. Il dato comprende anche le presenze negli ICAM (istituti a custodia attenuata per tutelare la maternita’).
La vita delle donne detenute non è un argomento che suscita particolare attenzione neppure tra gli addetti ai lavori. Ed è invece utile approfondire il tema della soggettività delle donne detenute, della loro differenza, cercando di toccare, al contempo, le questioni legate al carcere, la funzione della pena, il senso/non senso di una segregazione vuota di idee e di progettazione rispetto alla peculiarità dell’essere donna.
Le recluse sono sempre state poche (meno del 5% della intera popolazione ristretta), e, se, da una parte, è vero che la loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale di cui alla sentenza di condanna CEDU dell’Italia (Sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013) e che meno soffrono quindi delle restrizioni conseguenti al sovraffollamento, dall’altra parte vivono con fatica la ricerca di attività soprattutto lavorative tali da rappresentare un vero e proprio percorso di emancipazione, perché la residualità numerica rispetto all’universo carcerario maschile rende onerosa la scelta di pensare il carcere al femminile.
Il lavoro è il fulcro del trattamento penitenziario, ma la reclusione delle donne, laddove vissuta in sezioni separate di istituti maschili, non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse, con meno opportunità di lavoro, studio e formazione, attività spesso svolte con modalità “caritevoli” e di sostegno psicologico, in un’ottica di riduzione della sofferenza. Non a caso il decreto legislativo 27 settembre 2018 recante “Riforma dell’ordinamento penitenziario” emanato in attuazione della delega di cui all’art. 1, co. 82,83 2 85 lett. che ha modificato l’14 l. 354/’75 art. 80 l-354/975 e succ. modifiche, ha così riscritto l’ultimo comma “Le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in modo tale da non compromettere le attività trattamentali”.
Questo microcosmo carcerario, ritagliato all’interno di un dimenticato “ femminile”, che viene alla ribalta solo di fronte a vicende giudiziarie che salgono agli onori della cronaca, là dove la spersonalizzazione e l’infantilizzazione sono ancora processi dominanti, diventa di particolare difficoltà per le donne straniere: il vissuto familiare, il ruolo genitoriale, la relazione con le operatrici, la difficile presa di coscienza di sé, del proprio esistere, del proprio corpo, la centralità degli affetti, la loro perdita, la lontananza (i figli soprattutto, ma anche i genitori, i partners) sono per le donne detenute straniere i fattori maggiori di sofferenza e di condizionamento in negativo, la cui rilevanza rimanda al tema della centralità della “cura” nella donna. Il carcere ancora oggi rende difficile avere colloqui, o anche solo notizie delle persone care, nonostante il mantenimento delle relazioni esterne sia segnalato dall’OMS come fattore di protezione della salute psicofisica per i reclusi. Per le donne straniere, spesso motivate da ragioni economiche a delinquere (si pensi come detto a quelle che usano il corpo per trasportare quella droga per far sopravvivere figli che forse mai rivedranno), alla fatica di resistere deve essere accompagnato un progetto di recupero e di mantenimento degli affetti, favorendo soprattutto le relazioni con i figli lontani, anche attraverso associazioni in loco, vie diplomatiche, progetti di rimpatrio assistito che consenta loro di riprendere un ruolo genitoriale attivo.
Sull’importanza dei rapporti delle donne con la famiglia e il mondo esterno insiste anche l’art. 8 delle Regole di Bangok delle Nazioni Unite sulle donne detenute e donne autrici di reato in misura non detentiva (luglio 2010).
PERCHE’ LE DONNE COMMETTONO MENO REATI
La bassa percentuale per le donne detenute è in sostanza stabile da molti anni, a conferma della peculiarità della detenzione femminile che non appare legata in modo sempre diretto a fenomeni ben individuati, come l’immigrazione. La risposta alle ragioni di questa macroscopica differenza con la detenzione maschile non è semplice.
Rispetto al permanere di questo limitato dato numerico per le donne è stato anche di recente affermato che il dato è inspiegabile e non c’è una risposta risolutiva: “sul tema gender and crime possiamo solo invocare la maggiore tendenza, biologica e culturale, dei maschi a comportarsi in modo aggressivo, a rientrare nello spettro delle personalità esternalizzanti, a compiere azioni violente e/o rischiose” (1). Ragioni ambientali, storiche, culturali, differenziano l’agire degli uomini e delle donne, a cui si aggiunge anche che alcune condotte, come la prostituzione, un tempo previste com reato, oggi non sono più considerate tali. Ma il ragionamento è complesso.
I reati per cui le donne finiscono di più in carcere sono i delitti contro il patrimonio, contro la persona e in materia di prostituzione. Ma dopo i furti, rapine e droga, ci sono i delitti contro la persona fra i più frequenti, dall’omicidio volontario alle lesioni. A volte crimini di inaudita ferocia accompagnano la storia di donne portatrici di immani sofferenze e abusi pregressi. La residualità numerica si evidenzia anche per il fatto che le stesse detenute straniere rappresentano, rispetto alla popolazione maschile straniera, solo il 4,1%, mentre nella popolazione maschile è circa del 30%.
Il numero appare pressoché identico nella genitorialità femminile nazionale e straniera.
CHE FARE ?
Il tema della detenzione femminile è stato affrontato in questi anni anche in apposito tavolo degli Stati generali dell’esecuzione penale nel 2015, istituiti per addivenire ad una complessa riforma dell’ordinamento penitenziario, solo in parte effettuata.
Correttamente la questione femminile non può essere vista solo con riferimento all’analisi della maternità in carcere, che pure è un macroproblema e va affrontato a parte anche per la peculiarità delle risposte giuridiche, ma affrontando il rapporto con la vita in carcere, la formazione professionale, la salute fisica e psichica, ecc. e soprattutto superando il concetto di trattamento come “cura” o “correzione”, che rischia di condurlo su un terreno medico-terapeutico e non responsabilizzante. Tra le proposte da coltivare, volte a ridurre la carcerizzazione delle donne, la costituzione di un apposito Dipartimento, il maggior ricorso alle misure alternative, con particolare riferimento alla detenzione domiciliare, l’implemento dell’art. 30 Ordinamento Petinenziario in materia di permessi per la partecipazione ad eventi importanti della vita familiare delle donne detenute, maggior ricorso all’art. 21 bis e ter O.P. per assistere i figli all’esterno, la partecipazione delle donne detenute in carceri a prevalenza maschile alle attività educative, lavorative, sportive previste per gli uomini, maggior tutela della salute, istituzioni di commissioni di donne detenute per la cogestione di attività, previsione di luoghi per l’affettività e implemento della possibilità di comunicare, senza limiti di tempo, tramite posta elettronica, skype e internet. , nonché specifica formazione del personale.
Occorre ripensare le modalità di esecuzione della pena al femminile, riducendo ulteriormente l’operatività con miglior accesso alle misure alternative. Insomma, un universo che va differenziato reso autonomo nelle sue potenzialità e nelle sue dinamiche, per valorizzarne la peculiarità e per far diminuire ancora quelle presenze.
1 Così Vittorio Lingardi, psichiatra e psicanalista, professore ordinario all’ Università La
Sapienza di Roma in “Giustizia: donne e carcere, quel 5% che rende invisibile; il “gender”
di Donatella Stasio , Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2015.
Desi Bruno, Avvocato






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