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NON SI MUORE DI SOLO COVID

Il Covid 19 non è stata l’unica causa di morte durante questo periodo di lockdown;
un altro virus, altrettanto grave e molto più subdolo, ha ucciso: la violenza di genere.
In Italia è oramai divenuto un fenomeno non più occasionale ma strutturale,
soprattutto in questi ultimi mesi in cui la grande pandemia del Covid 19 si è propagata in modo
cosi fulmineo e virulento in tutto il territorio nazionale e in tutto il mondo.
In un arco temporale di nove settimane di quarantena hanno trovato la morte 11 donne tra le mura delle proprie abitazioni.
Amnesty International riporta i loro nomi: Larisa (4 marzo), Barbara (10 marzo), Bruna (13 marzo), Rossella (19 marzo), Lorena (31 marzo), Gina(2 aprile), Viviana (6 aprile), Mariangela (16 aprile), Alessandra (19 aprile), Marisa(5 maggio), Susi(8 maggio).
Accanto a questa orribile violenza ”visibile”, purtroppo si affianca una violenza più subdola e distruttiva, che prende le forme di un gioco manipolatorio esercitato da parte di colui che viene definito ”manipolatore affettivo” e  ”sanguisuga della vita altrui”. Trattasi  prevalentemente di un personaggio egocentrico che assorbe energia e soffoca il potenziale delle persone a lui vicine, arrogandosi il più delle volte il diritto di decidere al loro posto.
Agisce in modo silente, i suoi colpi lasciano segni indelebili, ”ferite invisibili” in quanto non percepibili esternamente. Sono ferite che causano un dolore lacerante dove fa più male, ovvero internamente, che infettano l’anima e creano malesseri e infelicità che possono durare tutta la vita.
Dunque, quale tutela per forme di violenza cosi orribili?
La legge n. 69/2019, denominata anche Codice Rosso, introduce un elemento innovativo: il riconoscimento della violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione.
Tale novità rientra nel quadro delineato dalla Convenzione di Istanbul(2011).
Molteplici sono gli interventi in campo, quali la formazione sulle tecniche di ascolto e di approccio alle vittime , di valutazione del rischio e individuazione delle misure di protezione, l’attivazione di risorse finanziarie per un Piano Antiviolenza e la rete di case rifugio.
Nel soffermarci sulla misura di protezione delle case rifugio,
consistenti nella messa a disposizione di case dove poter trovare accoglienza in situazioni di messa in pericolo della propria incolumità, sia essa fisica, sia essa psicologica,
sorge un interrogativo circa l’opportunità o meno di consentire l’abbandono alla vittima del domicilio di appartenenza, tra l’altro, provocando nella stessa un ulteriore trauma causato
dall’andare via dalla casa che le appartiene, anche se non materialmente, ma nell’intimo, per l’amore e il calore e la cura investita nel periodo di coabitazione.
E’ giusto sottoporre una persona già tanto sofferente ad un allontanamento altrettanto doloroso come l’abbandono della propria casa per essere depositata in una  struttura per lei fredda ed estranea?
Non sarebbe più giusto ed equo prelevare il ”mostro”, per sottoporlo
alle cure che il caso specifico richiede,  in  centri destinati appositamente a tale scopo e dei quali il
nostro Governo dovrebbe farsi carico?

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